La frase di Poletti: “Dovremo immaginare un contratto di
lavoro che non abbia come unico riferimento l’ora di lavoro ma la misura dell’opera. L’ora di lavoro è un attrezzo vecchio che non
permette l’innovazione”
La frase che esce dalla bocca di Poletti non è solo farina del suo
sacco.
E’ una frase che in realtà dice ben poco ma è orientativa per il ruolo
che intende giocare il governo quando si porrà come mediatore in tutte le
trattative contrattuali future.
Nell’ambito di un rapporto di
lavoro subordinato la misurazione della retribuzione in rapporto all’ora di
lavoro è uno strumento che hanno voluto le stesse imprese e gli stessi
lavoratori, e si traduce nei fatti in:
il lavoratore cede un’ora della propria vita in cambio di una
retribuzione;
l’imprenditore indica le mansioni da svolgere e le modalità con cui
bisogna svolgerle;
il lavoratore ha il compito di svolgere quelle mansioni con diligenza e
la mancata diligenza può compromettere il rapporto di lavoro.
E’ già così, quindi se il Poletti
parla di misura dell’apporto, nel campo del lavoro subordinato non sta aggiungendo
nulla.
Nella storia del lavoro ci sono
state esperienze di vario tipo che hanno riguardato le mansioni e : non sono
una novità il cottimo (cottimo personale e cottimo di squadra per le catene di
montaggio); non sono una novità l’aumento
dei ritmi di lavoro (ricordiamo il vecchio film di Chaplin sull’applicazione
dei taylorismo); non sono una novità le lotte contro la nocività di alcuni
reparti; non sono una novità gli stessi premi di produzione (i premi
individuali, di squadra, di reparto, di intera azienda).
Se tutto questo già esiste quale
può essere la novità di cui parla Poletti?
La qualità di un prodotto non è decisa dal lavoratore subordinato, ma
dall’imprenditore: che sceglie il suo
staff, che sceglie la produzione da fare, che sceglie l’organizzazione interna
dell’impresa; che sceglie il personale adatto.
Il prodotto alla fine può essere
buono o meno buono, di qualità scarsa o di qualità elevatissima; ma alla fine
quello che conta è che il prodotto sia venduto sul mercato e che sia in grado
di dare dei ricavi: i ricavi andranno a compensare i costi per materie prime e
immobilizzazioni, i costi della manodopera, il profitto dell’imprenditore per
il suo lavoro e per il rischio d’impresa.
Allora occorre chiarire se nelle
parole “misura dell’apporto” di
Poletti e dei suoi suggeritori ci stanno l’entità globale dei ricavi (cioè
delle vendite).
La questione diventa allora più
semplice da capire e può diventare nel lavoro subordinato qualcosa di questo
genere:
soluzione estrema - mi dai un’ora del tua vita, io ti indico le modalità
di lavoro che dovrai svolgere con diligenza, poi io ti pago solo se vendo il
prodotto;
soluzione media - mi dai un’ora del tua vita, io ti indico le modalità
di lavoro che dovrai svolgere con diligenza, poi io ti pago per una parte in
modo fisso e per un’altra parte solo se vendo il prodotto.
In pratica dietro alle parole “misura
dell’apporto” si viene così a nascondere una richiesta di partecipazione alle
perdite e ai guadagni. Ma se questo concetto può essere comprensibile e logico
all’interno di un rapporto associativo, diventa meno comprensibile all’interno
di un rapporto di lavoro subordinato; chi prende le decisioni resta l’imprenditore,
che potrà indicare le modalità e decidere ciò che si intende per diligente o
meno diligente nella conduzione del lavoro. Non credo che gli imprenditori
possano accettare decisioni assembleari di lavoratori e sindacati, e in ogni
caso sarebbero poco gestibili.
Allora attenzione a non
innamorarsi scioccamente delle parole e cercare di usare parole chiare per
evitare inutile confusione. Noi abbiamo in Italia aziende che tirano e fanno
profitti ed aziende che arrancano e che si trovano sull’orlo della chiusura;
abbiamo anche contratti di lavoro nazionali che valgono sia per le aziende in
buona salute e sia per quelle in pessima salute; la ricerca di una flessibilità
nei contratti aziendali è comprensibile. Non si possono stabilire le stesse
modalità per tutte le aziende, non si può applicare la paga oraria uguale per
tutti e non si può applicare una “misura dell’apporto” applicabile in tutte le
aziende. Vanno stabiliti i requisiti minimi e poi lasciare spazi alle contrattazioni
aziendali. Ma anche in questa soluzione prospettata ci possono essere dei
problemi, perché le aziende che tirano e non hanno problemi di vendite,
tenderanno lo stesso a pagare il minimo per aumentare i profitti, profitti che
spesso vengono occultati dagli stessi bilanci. Un richiamo alla morale potrebbe
essere utile, ma la stessa morale arranca.
Allora non rivoluzioni parolaie
dei nostri ministri e neanche chiusure da parte sindacale, ma attente
disposizioni contrattuali che non vadano a strozzare i lavoratori e che non
vadano a strozzare gli imprenditori in difficoltà, e che soprattutto siano
capaci di combattere la disoccupazione. (f.z.)
Nessun commento:
Posta un commento
Tutti i commenti e i contributi sono benvenuti, la redazione si riserva, in via di autotutela, di eliminare commenti che incitano alla violenza o con carattere offensivo verso terzi.